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“Tutti i no sono saliti al cielo” di Laura Pezzola

Per noi estimatori della poetessa Laura Pezzola balza evidente all’attenzione che la sua ultima silloge poetica determina un’evoluzione stilistica, e soltanto in parte contenutistica, inconfutabile e di convincente autorevolezza. Con l’accentuarsi della necessità di estendere il proprio sguardo sulla contemporaneità, civile e storica, emerge la risoluta presa di posizione dell’Autrice di esigere dai lettori della sua opera un coinvolgimento maggiore rispetto al passato e una risposta critica alle tematiche affrontate; questo probabilmente origina un approccio più difficoltoso al suo lavoro ma, superato il lieve stupore che ne consegue, ritroviamo in queste nuove liriche la consueta sensibilità dell’Autrice, espressa solo in una maniera più complessa e, in qualche caso, coraggiosamente nuova.

I temi a Lei cari, infatti, ci sono tutti: la Natura, con le sue toccanti nuance metaforiche e/o allegoriche; il senso del Tempo e del suo scorrere e il lasciarsi nostalgicamente alle spalle momenti teneri e cari, in particolare il periodo dolce dell’infanzia (vedi l’esergo di Louise Gluck); discreti elementi biografici, mai invadenti, che prendono vita come malinconici acquarelli; a ciò si aggiunge, però, la forte volontà della sua poesia si ergersi a testimone di un periodo storico pervaso dagli orrori della guerra, della violenza insita nel tessuto corrotto di una società avara di valori e della devastazione prodotta da autoritarismi politici che annichiliscono la civiltà umana. 

Il senso preponderante della Natura pervade, inoltre, queste nuove liriche di Laura Pezzola con spirito meno gioioso rispetto al passato, dove da padrone la faceva il gusto quasi pittorico/cromatico dell’espressione naturalistica. In ogni caso la Natura resta un trait d’union tra le anime poetiche che animano il mondo dell’Autrice, la costante che in Lei si fa, ormai decisamente, marchio di fabbrica.  

Il Tempo amaro di un oggi così travagliato graffia l’anima, nessuna certezza ha più la capacità di fornire consolazione alla malinconia di chi agogna pace, serenità e la tensione verso un futuro migliore. In questi versi viene affrontato quasi “di petto” il male di vivere, senza sconti, con piglio severo, adulto, e questo perché in una manciata di anni è cambiata totalmente la nostra vita e la poesia non può rimanere un rassicurante abbellimento dell’esistenza, un’espressione raffinata da dolce stil novo del nostro mondo, ora è venuto il momento di scendere in campo e prendere posizione nei confronti di un orrore che sembra senza fine, di un decadimento morale ed etico che non fa prigionieri.

Le poesie di Laura Pezzola, inoltre, sono costellate da piccole gemme, immagini e frasi struggenti,  bellissime, che spiccano tra le altre per la sola magia di essere state scritte da una mano così acuta, priva di retorica, lucida ma estremamente vibrante di delicatezza: l’eleganza stilistica trae la sua più pura forza dal penetrante potere evocativo delle singole parole scelte nell’arco di un verso, collocate in un punto preciso dell’eloquio che ci spinge a comprendere che quella e non un’altra era la scelta giusta. 

Tutto questo accade per il semplice fatto che Laura Pezzola conosce la potenza della parola: bella, dolce, severa, dolorosa, allegra ma sempre necessaria, perché irrinunciabile strumento di conoscenza.

Roma, 6 gennaio 2024 

Massimo Tirinelli

Cesare PAOLETTI
“Oscurità”

PREFAZIONE

           Bisogna dare atto all’Autore di questo notevole thriller di avere avuto una dose di coraggio non indifferente nello scegliere come tema la pedofilia, un argomento non certo facile, annoverato tra le piaghe più sconvolgenti della nostra società; il tocco dello scrittore è, però, leggero e sa muoversi con perizia nella descrizione di eventi scabrosi con la delicatezza che la circostanza impone, senza indulgere mai su situazioni morbose, senza la minima concessione a scene sgradevoli: l’orrore che viene narrato è prettamente psicologico ma sufficiente, comunque, a suscitare nel lettore un senso di gelida repulsione, in quanto spesso non “vedere” fa scattare “l’immaginazione”, a volte il peggiore dei mostri.

           In questo romanzo sostiamo quasi a disagio sull’orlo di un abisso, violento, brutale, malsano, creatore di un Male che scopriamo fare nido, a volte, nella parte più insospettabile e onorata della società, subdolo, insinuante, spesso dalla facciata più rispettabile. E’ doloroso e angosciante comprendere come spesso il Male è nascosto nell’anima nera di qualcuno che, invece, vive tranquillamente tra di noi, sotto il nostro stesso cielo, qualcuno che, nel contempo, è preda della propria disgustosa ossessione sessuale e omicida.

           In questo contesto la critica sociale che sottende la narrazione non lesina sapide frecciate all’uso spregiudicato della strumentazione informatica, ormai tessuto della nostra contemporaneità, che teoricamente dovrebbe essere il massimo indicatore dello sviluppo tecnologico della civiltà moderna, ma che, invece, si rivela in più di un’occasione un cavallo di Troia per gli operatori del Male, esattamente come accade in queste pagine.

          Come ogni buon romanzo “whodunit”, termine inglese che indica quella declinazione del giallo alla Agatha Christie dove l’assassino viene reso noto soltanto poco prima della parola fine, l’intreccio di questo thriller procede spedito attraverso una detection molto serrata, priva di rallentamenti: interrogatori, perquisizioni, dubbi incidenti stradali, ferimenti mortali, indiziati reticenti, minacciosi avvertimenti, presunti colpevoli e molti colpi di scena, alcuni dei quali di forte impatto emotivo, tali da rendere questa storia adattissima per una fiction televisiva. La concatenazione degli eventi, infatti, è congegnata secondo un montaggio cinematografico tipico delle migliori produzioni poliziesche, dove il momento dell’azione spettacolare e quello dell’indagine investigativa corrono di pari passo verso lo scioglimento dell’enigma, che puntualmente arriva, imprevedibile, poco prima dell’ultima pagina.

     L’eroe della nostra storia, il commissario Luca Gentile (nomen omen), è un uomo non più giovane ma non indurito dal suo mestiere, che non teme di mostrare una sensibile delicatezza d’animo, estranea agli incalliti poliziotti del nostro immaginario collettivo, una persona che medita sugli aspetti più nobili dell’umana esistenza, cogliendone il senso ultimo e la gioia che deriva dall’empatia con gli altri esseri umani. 

      Quella del commissario Luca Gentile è una felicissima invenzione letteraria dove, all’intuito psicologico, derivante da una lunga e felice carriera, si unisce una spiritualità interiore che lo porta a trascendere dal senso pratico di chi opera in un ambito spesso crudele e violento, e che lo fa essere un uomo di fede, ma in una accezione laica. E l’uomo di fede perdona sempre, in qualche modo trova parole di comprensione per la fragilità umana, al contrario di chi, in qualità di tutore dell’ordine, si limita a fare il proprio mestiere, applicare, cioè, la legge.

     Come rasserenante contraltare alla durezza delle vicende narrate, fa sfoggio di sé la magnifica location del Monte Argentario, in particolare Porto Santo Stefano, fotografata nello splendore frizzante dell’estate, con le sue notti profumate e le sue spiagge dai colori ammalianti, descritta dall’Autore con la stessa intensa partecipazione che merita una figura protagonista.

Massimo Tirinelli

BUONI E CATTIVI

di Francesca Andruzzi

Con questa strepitosa silloge di racconti Francesca Andruzzi si concede l’opportunità di esprimere la sua visione sul genere umano, e lo fa porgendo con cura ai suoi lettori una ricetta raffinata e prelibata, un vero e proprio miracolo di gastronomia, cucinata con consueto mestiere e indubitabile competenza: un serraglio di ritratti di varia umanità, che, proprio come la vita, a volte ci fa sorridere maliziosamente, a volte decisamente ridere, spesso meditare sul nostro destino e sulla significanza dei nostri comportamenti. I nove racconti di “Buoni e cattivi” evidenziano la perizia dell’Autrice nell’affrontare una gamma di registri stilistici variegata e ricca di sfide, contenutistiche e di linguaggio. Possiamo affermare in tutta tranquillità di essere dinnanzi a una vera e propria sinfonia della vita, le note della quale sono gli esseri umani, ripartiti, con amabile perfidia, in “buoni e cattivi”; una sinfonia, però, non certo buonista, visto che la signora Andruzzi conosce benissimo la difficile arte di veicolare concetti aspri con il miele e l’assenzio. L’approccio dell’Autrice è quello di un entomologo: studia, analizza, deduce. La lectio magistralis che ne sortisce è: qual è il senso della vita umana se non l’implacabile somma delle nostre azioni? In alcuni casi la bravura dell’Autrice riesce a mostrarsi spigliata artefice di acido sarcasmo nei confronti di alcune tipologie umane descritte, tanto da ricordare in più di un momento la pittura espressionista e marcatamente grottesca di George Grosz; la sua è un’ironia impietosa e perentoria che al sorriso unisce lo svelamento dell’ipocrisia dei comportamenti della società borghese, quindi noi.  Lo stile letterario adottato, vera chiave di interpretazione di alcuni di questi nove racconti, è ideale per illustrare personaggi patetici, e spesso disdicevoli, adottando gli stilemi della critica sociale più sferzante. Assumendo a volte i toni del comte philosophique, variando dall’umorismo al grottesco, fino all’assurdo, il sorriso illuminista di Francesca Andruzzi ha il grande merito di affascinare i lettori in un pirotecnico e spumeggiante gorgo narrativo alla Diderot.  Per altri racconti, al contrario, il tono, pur sempre lucido e incisivo, si scioglie in una pietas che riconduce la narrazione nel solco della speranza e della fiducia in esseri umani che, mutuati anche dall’attualità che ci circonda, onorano il sacro mistero della vita, raggiungendo vette di intensa spiritualità. La vera forza di questo libro, però, consiste nel linguaggio lussureggiante e permeato di colta raffinatezza che sostiene tutta la narrazione, conferendole unicità e preziosità: la verità delle cose viene raggiunta ed espressa nel breve volgere di una frase, nella scelta sapiente di sostantivi e aggettivi, e nella loro felice unione. La silloge di racconti si apre con “In assenza”, felicissima intuizione narrativa di moderna rilettura del feuilleton ottocentesco, pregno di un fraseggio ironico, mordace, allusivo; lo sguardo, qui, è cinico e tagliente, non fa prigionieri laddove la risata intelligente si fa larvata ma aspra critica riguardo i ceti sociali e i loro (miserandi) esemplari. La visione di un erotismo triste e decadente alla Brancati si coniuga allo scintillio della pochade alla Feydeau: irresistibile e furiosa sarabanda di corna, squallore e vetriolo. Si prosegue con “Cose che accadono”, figurina femminile aggredita dalla violenza di una nomea maligna; il maschilismo italiota, che tuttora alberga in alcune fasce dell’attuale comunità nazionale, viene letteralmente fatto a pezzi, ma anche nei momenti più feroci la penna sa farsi leggera, arguta, spietata, comica e dirompente. Si narra dell’ineluttabilità della nostra esistenza, dell’accettazione degli eventi più bislacchi, e, più di tutto, del trovare un senso, una luce nel buio di questa porzione di tempo che ci è stata concessa: dobbiamo lottare per dare senso alla vita e non accettare quello che viene. “Rosa Timo” è il feroce paradosso di una vita funestata da un nome e cognome che sono un presagio e/o una maledizione. Più grottesco degli altri racconti, è il negativo fotografico dell’esaltazione della vita, tanto che la protagonista ci racconta la sua esperienza nella condizione specialissima di “defunta”. Sorridiamo (impossibile non farlo) ma ci poniamo nella considerazione che la paura di vivere ci porta davvero alla morte interiore. “Nata due volte” è quello che in lingua anglofona si definisce un “twist of fate”, uno scherzo del destino, dove sensazioni, presagi, premonizioni, coincidenze, sogni ci regalano un’atmosfera sottile di “oltre” assai inquietante. Thriller, metempsicosi, mistero, spiritualità: siamo dalle parti di Stephen King, ma solo in apparenza, perché la “mission” del racconto è che alla fine non dobbiamo necessariamente capire tutto, non tutto va analizzato e assorbito, quello che conta è vivere, fluire nella scia dell’esistenza; siamo qui, ora, e non abbiamo il tempo per indagare misteri. “Argento vivo” è forse il più delicato dei nove racconti, il più assimilabile a un fiore dai colori tenui; in un atmosfera quasi onirica, dove i morti sono più vivi dei vivi, l’Autrice ci prende per mano e ci conduce in luoghi di cui abbiamo sentito parlare ma che in questi nostri duri tempi non abbiamo mai davvero abitato: la necessità nella nostra quotidiana esistenza di un po’ di gentilezza, di fermarsi per un solo attimo e riconoscerci umani. Abbiamo tutti più o meno bisogno di bellezza e armonia e Francesca Andruzzi ci ricorda quello che in fondo dovremmo sapere, che, cioè, basta poco per tale conquista, che il segreto è ritrovare un barlume di spiritualità dentro e intorno a noi. Con “La ricevuta” torniamo a fare i conti con la frizzante e sarcastica vivacità dell’intelligenza dell’Autrice. Ci confrontiamo con una fluidità narrativa degna di una consumata scrittrice, che, senza accenno di tentennamenti, porta a perfetto compimento il ritratto ilare e graffiante di un maschio alfa di provincia (Piero Chiara docet) che rimpolpa la galleria di certi playboy gaglioffi e patetici della commedia all’italiana anni sessanta, tipo Pietro Germi, con tanto di colpo di scena finale, beffardo e crudele. Mix ineguagliabile di velenosa ironia e lucidità intellettuale. Che dire? Letteratura maiuscola. “Parlami d’amore”  ci rammenta che l’amore è un destino che ci appartiene e al quale non ci possiamo sottrarci o opporre. E, soprattutto, che viaggia in modalità circolare: da noi parte e a noi torna, regalandoci, alla fine, la spiegazione ai nostri affanni. Ne “Il diario”  il linguaggio diventa minimalista, asciutto, calibrato, sobrio, apparentemente piano; ciò accade perché, a fronte di un argomento tanto doloroso come l’orrore che permea i momenti più duri della Storia, non occorre spendere troppe parole, l’evidenza del male è lì, sotto i nostri occhi. L’Autrice qui gioca di assenza, il suo pudore nel trattare la materia incandescente è forte, e il pathos resta volutamente basso. Il tono della narrazione è quello di una fiaba triste e livida. L’architettura delle abitudini del protagonista, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, è una prigione inespugnabile dove gli altri non hanno la benché minima possibilità di accedere. Il trantran di una vita scialba gli assicura la tranquillità emotiva e lo rassicura. La forza del linguaggio consiste nel non cedere al facile mood tragico: il boato del silenzio interiore è quanto di più drammatico si possa descrivere. Ma poi l’apertura al cambiamento arriva, sollecitata da un nuovo immane dolore, gli farà comprendere che c’è soltanto un’arma per tentare di difendersi dal dolore: l’Amore. Chiudersi al mondo significa assecondare il male, farlo vincere. L’unica possibilità è rinascere nell’Amore e debellare il mostro nero davanti a noi. Il libro si chiude con “Senza paura”, un J’accuse dai toni fermi ma mai urlati, una compostezza formale che allude alla volontà di non cedere al puro sfogo emotivo. Ci si concede perfino il lusso di parlare del “male del secolo”, il cancro, con un accenno di leggerezza (“Il tumore era benigno, il marito no”).  Ci congediamo, così, da questo splendido libro con una riflessione sulla fede, l’amore e il loro intersecarsi, l’essere l’una lo specchio dell’altro, e il ricordo della canzone di Vinicius De Moraes, “Sem medo”, cantata in italiano da Ornella Vanoni, “Senza paura”: “Ma passa per il buio/senza paura…”  

Roma, 29 ottobre 2021

Massimo Tirinelli

Roma, le ombre della gloria

Mai città ebbe più meravigliosa avventura
Indro Montanelli

Gli estimatori dell’opera di Alfonso Zammuto vedranno esaltata nelle fotografie di questo volume ciò che può essere forse considerato il tratto più personale del suo stile, il far emergere aspetti inediti e sorprendenti anche in un soggetto iconico per eccellenza come Roma. Un’operazione che sulle prime si sarebbe tentati di classificare come “causa persa”: cosa poter dire, infatti, della Città eterna che ancora non sia stato detto? Elaborare un degno omaggio alla “capitale del mondo”senza cadere in un abusato stereotipo è davvero una sfida. Ma l’Autore l’ha raccolta e ha vinto la scommessa con umiltà e maestria. Il presente volume fotografico deve essere concepito come un taccuino di appunti scritto con la macchina fotografica: lo snodarsi di percorso che ad ogni scatto si configura sempre più come la ricerca inesausta di quell’ineffabile “quid” che è il significato immanente di Roma caput mundi, di Roma culla di civiltà e di bellezza. Roma è diventata Roma in un arco temporale assai lungo che ha visto mescolare, spesso drammaticamente, ombre inquietanti ed esplosioni di luce accecante, gloria e miseria, senza mai dimenticare di essere perno dell’evoluzione storica, artistica e religiosa dell’Occidente. Sfogliando il volume comprendiamo che qui non siamo alle prese con una carrellata di scatti illustrativi, per quanto splendidi, fini a se stessi: ci poniamo nella prospettiva del “nostos”, del viaggio di scoperta, della tensione spirituale verso una dimensione oltre. Queste fotografie sono tappe di un viaggio all’interno del concetto stesso di “romanità”: è un viaggio che compie tortuosi e imprevedibili giri per approdare alla nostra attuale realtà, a noi stessi, moderni e inadeguati eredi di sontuosa e imperitura fama. Ammirando questi scatti restiamo attoniti, con orgoglio avvertiamo rinascere dentro di noi la nostalgia delle nostre radici, la profonda consapevolezza di appartenere alla Storia. Il raffinato bianco e nero di questi scatti suggerisce, dunque, la cronaca di un viaggio nel cuore pulsante della più bella città del mondo, rispettoso e colmo di stupore, un iter che si risolve ben presto in una resa emozionale alla maestosità, al fascino, all’altezzosità di un mito che da parte di chi osserva non accetta altro sguardo se non di sottomissione. Le foto si susseguono rischiarando di nuova luce capolavori assoluti, luoghi della cristianità (perfino il loro principale rappresentante, il Papa), miracoli architettonici dalle eleganti proporzioni (gallerie, colonnati, scalinate), interni moderni dalle sofisticate geometrie, fino ad incontrare i protagonisti per definizione delle strade centrali della città, i sampietrini. E così, fondendo estrema perizia tecnica e afflato emotivo, Alfonso Zammuto prosegue coerentemente la sua ricerca del bello tentando di decifrare il mistero della luce e dell’armonia delle linee. 

Massimo Tirinelli

Sul quadro “Anna Bolena” di Paolo Bigelli 

Come per ogni artista che meriti a pieno titolo questo appellativo, anche per Paolo Bigelli è arduo tentare di intrappolare in un’arida elencazione di temi ricorrenti la poetica che sprigiona, potente e controllata, la sua ormai vasta produzione pittorica.
Certo, è innegabile un periodico soffermarsi su spunti di riflessioni privilegiati, che conferiscono carattere unico al suo mondo poetico, ma sarebbe riduttivo, se non addirittura suscettibile di critica, ricondurre un simile plot iconografico, così ricco e vitale, ad immagini e motivi che, se perentoriamente definiti elementi distintivi, non darebbero il giusto risalto all’urgenza pittorica di Bigelli.
Quanti di noi, immersi nell’osservazione attenta di un’opera pittorica, si sono attardati nella puntualizzazione del “cosa” e “come”: il soggetto, prescelto dall’artista come argomento, e la sua conseguente realizzazione materiale. Una convenzione, peraltro, che affonda le sue radici in una tradizione classicista, completamente sovvertita, qualora non abolita, dalle avanguardie storiche del Novecento.
Nell’opera di Bigelli, lontana dal poter essere stigmatizzata come portatrice di “sovversione” iconoclasta o di velleitaria rottura con il passato, è impossibile disgiungere il cosa dal come, in quanto il cosa non può trovare la sua emanazione materiale senza il come, e viceversa.
Operare questa separazione equivarrebbe a snaturare un’unità di intenti, che, ora sì, regala ai dipinti di Paolo Bigelli il quid che li fa unici: la perfetta osmosi tra passato e futuro, un ponte lanciato verso il domani, da percorrere insieme, fiduciosi di non rinnegare le nostre radici culturali ed esistenziali ma ugualmente determinati a vedere l’oltre.
A suffragio di quanto sopra esposto, allo scrivente basterebbe raccomandare un’attenta disamina di ANNA BOLENA, dove la classicità del tema affrontato fa paio con la modernità e originalità della tecnica compositiva. La dicotomia “moderno/classico” è serenamente superata dall’interazione di cosa e come: l’acceso cromatismo che fa da sfondo alla nobile figura di donna ha senz’altro una connotazione fortemente non naturalistica, quasi onirica e astratta, ma i colori prescelti per la sua realizzazione rimandano senza ombra di dubbio a suggestioni medievali, gotiche. Il senso della dimensione storica è dunque dato dal colore, dal puro e semplice colore, nulla di più. Una sintesi folgorante, colta e misurata, che dice molto di più di ogni esegesi storica. La compostezza ieratica della nobildonna lascia trapelare l’accettazione fiera di un futuro ormai segnato; le mani in grembo sono quelle di una donna tranquilla; la ricchezza dell’abito appartiene a chi, anche nella disgrazia, non rinuncia alla dignità del suo rango; il viso, dai connotati sfumati, è di colei che viene fagocitata dalla Storia (il nero), imperscrutabile e terribile, e dal proprio Destino (il rosso), non meno spietato.
L’onirismo, il simbolismo, l’elemento dell’acqua, il corpo disegnato con toni di acceso lirismo, il particolare che regala il senso del tutto, i fregi cromatici che orgogliosamente rivendicano un trascorso di illustratore, la languida malinconia di paesaggi tratteggiati con la dolorosa coscienza della fugacità della bellezza: sono temi che non avrebbero compiutezza senza l’accorta padronanza del mezzo.

La figura e il suo spazio

Il campo visivo offerto da un dipinto di Paolo Bigelli stimola un interessante spunto di riflessione sul rapporto esistente tra oggetto raffigurato (che determina l’area di attenzione dell’osservatore) e la restante porzione di spazio (sfondo). Nell’economia di un quadro questo secondo fattore risulta generalmente subordinato all’importanza che l’autore conferisce all’oggetto della narrazione. Spesso oggi i pittori indulgono alla rappresentazione senza troppo considerare l’impatto complessivo che certe decisioni di taglio visivo avranno sul significato dell’opera. 
Paolo Bigelli sovverte questa tendenza conferendo pari dignità al tema trattato e allo sfondo nel quale viene collocato. Pur restando centrale, il soggetto di cui si narra, infatti, non prevale sul contesto, raggiungendo una complementarità con ciò che fisicamente lo circonda che arricchisce e completa l’intera narrazione. 
Lo sfondo è narrazione, dunque, e il giudizio di chi guarda dovrà necessariamente tenere conto di ogni minimo, prezioso dettaglio davanti  ai suoi occhi, assaporando, in particolare, il sapiente cromatismo che ravviva quelle storie. 
I colori usati in queste opere hanno la prerogativa di suscitare emozioni così intense da allontanare ogni sospetto di calligrafismo decorativo, avendo la forza di rendersi necessari e imprescindibili dal risultato finale. 
Un esempio a suffragio di questa tesi è “La figlia del ceramista”.
Lo scorcio paesaggistico di puntigliosa preziosità, la tenda scostata che suggerisce la semplicità di un ambiente rurale, il piatto di ceramica appeso alla parete con la sua accentuata definizione naturalistica, il vaso di vivace eleganza formale: sono questi elementi che certo non possono essere declassati a mera illustrazione o stucchevole decoro, ma diventano il quid narrativo stesso del dipinto. 
Dopo la carrellata di particolari così finemente cesellati dal Bigelli, come può la nostra immaginazione non elaborare la figura di un ceramista abilissimo nel suo mestiere e, per il solo avere una figlia così compita e graziosa, di onesti sentimenti?
Quella sulla tela è una storia, e, come ogni storia che si rispetti, davanti al nostro sguardo si muovono figure e prendono corpo emozioni. Ma sullo sfondo di ombre, colori, luci, natura, cose, e di ogni altro particolare necessario a farci sentire nostra quella storia.